La vita di una ragazza normale, laureata in giurisprudenza, con tanti sogni nel cassetto che per una serie di colpi di testa e tragiche fatalità si è trasformata in un incubo. Parliamo di Anna Toracchi, morta a 34 anni in una cella del carcere di Civitavecchia il 20 giugno 2009. Tutto ha inizio nel mese di agosto 2008, quando dopo una lite con il fidanzato dell’epoca, in un accesso di ira gli prende l’automobile e viene denunciata da quest’ultimo. Raggiunta dalle forze dell’ordine viene arrestata e l’Autorità giudiziaria dispone la misura cautelare ai domiciliari. Anna, ha ancora da dire qualcosa a colui che crede essere l’uomo della sua vita, così, senza pensarci su due volte, evade dai domiciliari e per lei si apriranno le porte del carcere, dapprima quello di Rebibbia e poi quello di Civitavecchia da dove non uscirà viva a solo un mese dalla sua liberazione.
Per la giustizia italiana Anna è morta impiccata con una paio di slip a un termosifone sottostante la finestra della sua cella. Giudicata pericolosa e con tendenze suicide era stata completamente denudata e guardata a vista dalle guardie carcerarie. Per questioni di sicurezza la finestra della cella era stata smontata e così la donna era costretta al freddo della notte con una sola coperta a disposizione per ripararsi. La vicenda di Anna dimostra ancora una volta le terribili condizioni di vita nelle carceri italiane, il nostro Paese infatti è stato più volte condannato dalla Corte europea dei diritti dell'uomo perché incapace di garantire uno standard compatibile con la tutela dei diritti fondamentali dei detenuti.
La prima domanda che sorge spontanea è il perché degli slip se il regime carcerario impostole prevedeva la completa nudità. A complicare la faccenda c’è poi il dietrofront del perito del pubblico ministero che in primo grado aveva parlato di corda usata per l’impiccagione e in appello, in sede di dibattimento, ha cambiato le carte in tavola dicendo: “Ritrovai dei segni di vitalità nel solco cutaneo. Non volevo dire corda, volevo dire vitalità”. La perizia della parte civile è di tutt’altra opinione e sostiene “l’impossibilità di un suicidio attuato con le mutandine che avrebbero dovuto reggere un peso di circa 65 kg senza lacerarsi e consentire un allargamento tale da praticare un nodo scorsoio intorno al collo”.
Tuttavia a prescindere dalle circostanze misteriose che ancora oggi avvolgono la morte della giovane donna (sarebbe riuscita ad impiccarsi con i piedi che toccavano terra), il dato che emerge prepotentemente è il trattamento disumano e degradante subito: costretta in isolamento nella più completa nudità sotto lo sguardo del personale di turno, ed esposta alle intemperie (le finestre della cella erano state smontate) giorno e notte.
L’avvocato della famiglia Toracchi, Filippo de Jorio, raggiunto telefonicamente dal Sito di Firenze, ha riaffermato che “grazie agli elementi probatori raccolti nel primo grado di giudizio non è possibile dare per scontato il suicidio. Non è un caso – continua il legale – che il sostituto procuratore generale, Mario Remus, in una delle prime udienze del giudizio di appello si sia espresso in questi termini: ‘Questo è un caso peggiore del caso Cucchi’”. Insomma di giustizia si può morire.
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