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cinema

Allacciate le cinture, per Oztepek difetti e pregi tra pianti e sorrisi

Il nostro giudizio
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Immagine articolo - Il sito d'Italia

Un film a metà tra dramma e commedia, in cui non si ride ma si sorride, che circoscrive l’elemento comico a quei pochi momenti concessi ma non si sbilancia nell’impegno eccessivo, per chi cerca il diletto che il genere prevede ma ha interesse a ragionare su qualcosa: la voce solista di una donna, il ritratto di una vita normale, l’analisi dei valori e la riflessione sui sentimenti sono il sale di questa pellicola, ambientata in un disincantato Salento che resta nell’ombra.

 

L’azione comincia con un clima rilassato, in cui a dominare è l’amicizia tra tre giovani alle prese con i problemi ordinari di chi a venticinque anni ama, vive e progetta, finché a turbare questo equilibrio non arriva il nuovo ragazzo di Silvia (Carolina Crescentini), il bello e vuoto Antonio, un Francesco Arca nel ruolo più congeniale alla sua persona, quello del mediocre assoluto e del palestrato senza cervello, che si innamora di Elena (Kasia Smutniak), la protagonista, nonché l’unica a presentare una minima introspezione psicologica. Tutta la vicenda ruota intorno a Elena, tanto che il film assume spessore emotivo solo se si accetta il compromesso di spostare l’intera attenzione su di lei, l’unica figura che testimonia uno sforzo di profondità da parte del regista.

 

Il salto improvviso e brusco dal 2000 al 2013 spiazza ma non disturba: Elena e l’amico Fabio (Filippo Scicchitano), l’immancabile personaggio gay di Ozpetek, sono riusciti ad aprire il locale che sognavano, legati da un’amicizia sempre più forte, mentre Elena ha due bambini con Antonio, una vita frenetica da donna di nuova generazione e un matrimonio improbabile che si avvia verso il suo fallimentare epilogo confermando le aspettative iniziali. Antonio, dal canto suo, continua a vivere per sbaglio, a mostrare la sua fastidiosa inettitudine in ogni occasione del quotidiano e a rendere palese la sua inadeguatezza alla vita.

 

Troppo aspre le critiche mosse al regista per la scelta di un ex tronista nel suo cast, perché è ingenuo pensare che non sia mirata: Arca non ha mai mostrato capacità recitative e Ozpetek non è uno sprovveduto, per cui non è un caso che il ruolo assegnatogli sia quello dell’inetto, dell’uomo grezzo che a stento sa leggere, che osserva il mondo intorno a lui con gli occhi inespressivi e vuoti di chi non sa che dire perché non ne ha idea. Per questo il risultato finale di Arca non è male e la sua cattiva recitazione non disturba, perché sembra naturale e spontanea, a tal punto che finisce per risultare perfetto nel suo personaggio. Nonostante sia il marito della protagonista (dunque figura tutt’altro che marginale) non ha ruolo: non parla, non partecipa ai dialoghi, pronuncia pochissime battute per scomparire dietro a personaggi che assumono una rilevanza maggiore, come l’amico omosessuale, personaggio positivo a 360 gradi, che vomita per l’angoscia nell’accompagnare Elena alle sedute di chemioterapia e che la guarda con gli occhi di un amore incondizionato. Fabio è un personaggio perfetto, comunica positività in ogni scena fino ad emozionare con i suoi sguardi spassionati e con il ruolo che porta avanti da tutta la vita, quello di esserci e basta. 

 

E poi c’è Elena, la protagonista, che ci porta con sé nel tragico climax ascendente della sua vita, che parte dagli amori, dai tradimenti, dai progetti per poi passare ad un matrimonio che fa acqua da tutte le parti ed arrivare fino alla vera tragedia del cancro, che lei affronta con una maturità e una forza che possono confondersi con l’incapacità del regista di rendere realmente la gravità della situazione. È brusco e fastidioso il salto dal clima da commedia a quello del dramma: le scene legate alla malattia non sono rese con la giusta profondità. Non è facile capire se questo sia dovuto alla forza della protagonista o alla leggerezza con cui il regista ha affrontato una tematica così grave. È probabile che la soluzione stia nel mezzo e che il limite sia imposto dal genere stesso della pellicola, una gradevole commedia impegnata e non un drammatico psicologico.

 

Elena Sofia Ricci nei panni della zia sconclusionata e imprevedibile, quasi pazza, non smentisce: ogni scena affidata a lei è perfetta, anzi la zia ha la funzione di calmiere, di elemento mitigante e sdrammatizzante, anche in quei momenti in cui da ridere c’è ben poco, perché proprio a lei è affidata la carica comica di una vicenda che invece prende una piega sempre più drammatica.

 

Un film ben riuscito nel suo significato morale, nel mostrare quanto tutto passi in secondo piano di fronte alla lotta per la sopravvivenza e quanto l’amore di chi ti sta intorno sappia manifestarsi in diversi modi, da quello esuberante della zia a quello trattenuto della madre, da quello comprensivo di Fabio a quello fisico di Antonio, ma non per questo meno intenso. Toccante è la scena in cui Antonio la desidera all’ospedale, di notte, mentre lei è stremata dalle cure, senza forze e completamente calva: fa l’amore con lei perché la ama e nessun ostacolo estetico lo frena. È un uomo che fino quel momento ha vissuto il suo essere mediocre con passività, ma che alla fine, seppur continuando a non avere capacità espressive, sembra in grado di amare.

 

È questo il messaggio dell’autore: Ozpetek vuole mostrare quanto varie siano le forme di amore e di quante sfaccettature si colorino i modi di amare, senza giudizi su quale sia più forte e quale meno. Tutti amano Elena, chi in un modo e chi un altro, e solo grazie a questo, anche nel dramma intenso della malattia, lei resta una donna fortunata. Allo spettatore, poi, il compito di decidere se un tale concetto di amore abbordabile e comune sia credibile o meno, dato che chi è convinto che l’amore sia roba per pochi difficilmente si farà convincere che un inetto sia in grado di amare davvero.

 

La trama inesistente, anzi peggio, basata sull’equivoco scadente di due amiche che si tradiscono con i fidanzati l’una dell’altra, lascia molto a desiderare, così come i bruschi passaggi da commedia a dramma e da dramma di nuovo a commedia che creano un forte senso di disordine e disorientamento rendendo troppo leggera l’atmosfera finale. Ma non è questo il punto su cui concentrarsi e non è la trama l’importante di questo film, serve solo da spunto di partenza su cui poi costruire una riflessione diversa.

 

La piacevolezza del messaggio finale ci fa passar sopra alla banalità dell’intreccio, degna di un cinepanettone o di una soap opera di prima serata, ma questo, così come la debolezza della trama e la superficialità introspettiva dei personaggi, serve a spostare l’intero baricentro su di lei, su Elena, in un film che finisce per essere il monologo essenziale e concreto di una donna alle prese con la vita e con l’amore, unico motore della sua esistenza. Costanza Rossi

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