La famiglia Aleotti non riciclò denaro accumulato all'estero, né fece reato di autoriciclaggio, che fu introdotto solo nel 2015 mentre il processo che coinvolge i proprietari della multinazionale farmaceutica Menarini riguarda indagini della procura di Firenze e della GdF risalenti nel tempo fino agli anni '80.
Così, evidenziando anche questo aspetto, l'avvocato Franco Coppi, difensore con l'avvocato Alessandro Traversi di Lucia Aleotti, figlia dell'ex patron della Menarini Sergio Aleotti, deceduto, ha chiesto alla corte di appello di Firenze l'assoluzione per l'imputata "perché il fatto non sussiste" e perché "non c'è prova" che lei e il fratello Alberto Giovanni abbiano attuato condotte accessorie a quelle del padre, collaborando in azioni di riciclaggio, col padre stesso o suoi incaricati. "La vicenda - ha proseguito Coppi - è sempre stata dominata dal padre, fin quasi ai giorni della morte. Tutt'al più, in ipotesi, le condotte dei figli possono essere state accessorie rispetto a un reato del padre, l'autoriciclaggio di cui però nei tempi contestati non c'era tipicità, non era reato, non era punibile". "Affermare che c'era concorso è una spensieratezza senza fondamento giuridico", ha detto aggiungendo che "Dire che lo scudo fiscale è autoriciclaggio non sta né in cielo né in terra". Sempre la difesa Aleotti, poi, con l'avvocato Roberto Cordeiro Guerra, ha respinto l'accusa di truffa al Servizio sanitario con operazioni commerciali sui principi attivi. Il legale ha detto che questa accusa è infondata anche perché dopo il 2001, dopo l'attentato alle Torri Gemelle, fu tolto l'anonimato da qualsiasi compagine societaria in tutto il mondo, "anche nei paesi cosiddetti paradisi fiscali cadde il segreto", inoltre "in Italia venne tolta la deducibilità fiscale dei costi sostenuti all'estero" di cui non venivano accolte le fatture, quindi non ci fu truffa allo Stato. Prossima udienza il 14 novembre. (ANSA)
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