Nascita di una Nazione
Dopo la fine della Prima Guerra Mondiale, come conseguenza dei Trattati di Vesailles, nasceva lo Stato cecoslovacco il 30 ottobre del 1918, dalla volontà di un gruppo di emigrati accomunati dall’odio verso gli Asburgo. Il progetto di costituzione prevedeva l’unione in un solo Stato di due paesi slavi che avevano lingue simili, ma non una storia comune. Sotto gli Asburgo la Boemia era diventata la regione più industrializzata e avanzata dell’Impero, anche sotto il profilo agricolo. Al contrario la Slovacchia, soggetta alla dominazione ungherese, aveva dovuto lottare per conservare la propria identità e resistere alla politica di magiarizzazione, rimanendo sostanzialmente uno stato agricolo. Per queste differenze la Cecoslovacchia era paragonata sempre più ad un’Austria-Ungheria in miniatura. L’unica nota positiva fu che il nascente Paese fosse affidato ad uomini di eccezione attorno ai quali si costruì
il nuovo Stato. Queste personalità erano lo slovacco Tomáš Garrigue Masaryk, professore universitario; Edvard Beneš, ceco, vicino al gruppo di universitari francesi di Ernest Denis e infine il ceco Karel Kramář, deputato presso il Reichsrat austriaco, che era stato imprigionato e condannato a morte nel 1915 con l’accusa di nazionalismo. Il primo governo che si costituì fu guidato da quest’ultimo e dovette affrontare subito delle difficoltà a causa della minoranza tedesca dei Sudeti, la quale aveva proclamato tre repubbliche e chiese successivamente l’annessione all’Austria. La rivolta fu domata con la forza (16-18 settembre 1918) anche se il problema si riproporrà nel 1935. Nel frattempo il regime democratico cecoslovacco funzionava, al contrario degli altri paesi dell’Europa centro-orientale che vivevano nell’autoritarismo e nel disordine. Poiché i cechi conoscevano la vita parlamentare grazie al Reichsrat di Vienna e i partiti erano profondamente radicati nella popolazione, in più, grazie alla scelta del sistema proporzionale tutte le tendenze avevano la possibilità di esprimersi. Naturalmente in queste condizioni i governi dovevano essere sostenuti da coalizioni. Quindi lo Stato della Cecoslovacchia dal 1920 al 1930 godeva di assoluta salute caratterizzata da una rara stabilità e da una forte fedeltà agli ideali di diritto e democrazia. Dal punto di vista della politica internazionale la Cecoslovacchia aveva dato vita alla Piccola Intesa nel 1921 insieme a Romania e Jugoslavia per scoraggiare il revisionismo di Austria e Ungheria, successivamente sciolta nel 1936. Questa intesa nasceva sotto l’occhio benevolo della Francia, nazione egemone nella politica internazionale dell’Est europeo. Con quest’ultima la Cecoslovacchia aveva stipulato un trattato che le garantiva l’integrità territoriale minacciata dal nazismo; ma il governo francese si accorgerà ben presto di non poter tener fede alle promesse fatte per contrastare la potenza di Hitler che da tempo non nascondeva le proprie mire sulla regione dei Sudeti abitata da una nutrita minoranza tedesca. Gli abitanti di origine germanica, suggestionati dalla propaganda nazista rivendicavano il diritto all’autodeterminazione, appoggiati naturalmente dal governo di Berlino che li sosteneva e li incoraggiava. Le richieste avanzate non erano nuove e l’unica risposta del governo ceco era stata la repressione. Nel frattempo con le elezioni del 1935, il partito tedesco dei Sudeti di Konrad Henlein riscuoteva un notevole successo, e otteneva l’adesione di altri partiti tedeschi nella sua organizzazione. La situazione precipitò nel 1938 quando si compiva l’Anschluss e Hitler dichiarava di voler proteggere i “tedeschi” ovunque fossero; a quel punto Henlein alzò la posta e durante il congresso del partito tedesco dei Sudeti (24 aprile 1938) rivendicò l’autonomia interna dei tedeschi di Boemia-Moravia. Il governo ceco prese tempo e gli occidentali inermi chiesero al presidente Benes di acconsentire alle richieste tedesche, ma in settembre, dopo alcuni incidenti che costarono la vita a una trentina di tedeschi, Henlein rincarò la dose e chiese l’unione alla Germania. Successivamente, su richiesta di Mussolini, il 28 settembre si tenne a Monaco una conferenza con Italia, Germania, Francia e Regno Unito per risolvere il problema dei Sudeti, e nella notte tra il 29 e il 30, i quattro Stati avallarono sostanzialmente le richieste di Hitler. Di fatto la Cecoslovacchia veniva smembrata non solo a causa della viltà degli occidentali ma anche per aver fatto troppo affidamento sul sistema di alleanze internazionali e non aver saputo o voluto prendere in mano il proprio destino. Quindi si ebbe da un lato il protettorato di Boemia-Moravia con un governo che si appoggiava su una milizia e su un partito unico e, di fatto, sull’autorità dei nazisti e dall’altro si ebbe una Slovacchia indipendente con un governo posto sotto la protezione tedesca e affidato da Hitler alle forze clerico-conservatrici che facevano capo a monsignor Tiso.
Verso il Comunismo
Dopo lo smembramento del Paese, il precedente governo Beneš si trovava in esilio a Londra e nel corso della II Guerra Mondiale, tenendo conto della nuova realtà dei fatti, si era avvicinato a Mosca mentre le truppe dell’Armata Rossa avevano liberato la Slovacchia e la capitale Praga. Con la definitiva sconfitta del nazismo il nuovo panorama politico cecoslovacco rispecchiava quello anteguerra con la formazione di un governo di coalizione affidato al socialdemocratico Zdeněk Fierlinger, già ambasciatore a Mosca e filocomunista. Senza aspettare gli accordi di pace furono espulsi tre milioni di tedeschi; di conseguenza la nuova Cecoslovacchia sarebbe stata più omogenea di quella del 1919. Uno dei primi atti del governo Fierlinger fu l’approvazione di una riforma agraria per distribuire le terre tolte ai tedeschi e ai grandi proprietari accusati di collaborazionismo. Essa permise di assegnare 3,5 milioni di ettari a 250.000 famiglie. Nel 1947 cominciarono le conferenze dei partiti europei per fruire degli aiuti del piano Marshall e i dirigenti cecoslovacchi accettarono l’invito postogli da Francia e Regno Unito di beneficiare delle sovvenzioni, ma sotto pressione di Stalin (il quale annunciava che l’accettazione degli aiuti americani avrebbe comportato la fine dell’alleanza con la Russia) i cecoslovacchi tornarono sui propri passi e rifiutarono gli aiuti. Così l’economia cecoslovacca che fino a quel momento guardava a occidente cominciò a orientarsi in direzione dell’URSS. L’elemento principale che segnò le sorti della Cecoslovacchia avvenne all’indomani della preparazione delle elezioni legislative, quando i ministri socialisti nazionali e populisti si apprestavano a rassegnare le dimissioni per indurre il presidente della Repubblica Beneš a separarsi dal ministro dell’interno comunista. Questi ministri speravano nell’appoggio dei socialdemocratici che nel frattempo avevano sostituito il leader Fierlinger con Lausman, in modo tale che Beneš avrebbe respinto le loro dimissioni e a indire elezioni anticipate che i comunisti avrebbero sicuramente perso per via della momentanea impopolarità legata al rifiuto del piano Marshall. In realtà i socialdemocratici non si unirono alla congiura e il presidente per paura di un intervento militare sovietico accettò le dimissioni che gli venivano presentate. Così nel febbraio 1948 il governo fu ricostituito intorno al partito comunista, con alcuni transfughi provenienti dai partiti esclusi e dai socialdemocratici. Nelle elezioni del 30 maggio del 1948 al fronte nazionale diretto dai comunisti andarono l’89% dei voti. Subito la stampa dovette allinearsi, le pubblicazioni anticomuniste furono messe al bando, nei giornali non comunisti ci furono delle epurazioni; l’industria e il commercio furono completamente nazionalizzati, l’agricoltura collettivizzata. Fu varato un piano quinquennale destinato a cancellare ogni traccia di capitalismo. Nel giugno del 1948 il partito socialdemocratico fu costretto a fondersi col partito comunista. Alla morte di Beneš la presidenza fu assunta dal capo del partito comunista Klement Gottwald e il governo presieduto da Antonín Zápotocký, dirigente della confederazione del lavoro. Infine la nuova Costituzione fu modellata sul canone costituzionale delle democrazie popolari.
Negli anni ‘50 avveniva la completa russificazione della Cecoslovacchia, molti uomini politici, comunisti compresi, furono rimossi dai loro incarichi, imputati di azioni inverosimili, trascinati in giudizio e duramente condannati all’ergastolo o a morte. L’organo che eseguì le “purghe” fu la Sicurezza di Stato (SIS), che riceveva gli ordini direttamente dai propri consiglieri sovietici, e dai sovietici furono orchestrati i processi-spettacolo di quegli anni. Così furono liquidati molti segretari provinciali e regionali e venne ucciso perfino il segretario generale del PCC Rudolf Slánský; fra gli arrestati figurava Gustav Husàk, il futuro leader della normalizzazione post- Dubček. Il processo di sovietizzazione attraversava ovviamente anche i canali della cultura, le ricche e variegate tradizioni si perdevano nell’indifferenziato monolitismo; le varie lingue, idiomi e dialetti, dovettero piegarsi all’accoglimento dell’unica e monocorde “neo-lingua” che parlava di libertà ed intendeva dittatura di partito, parlava di fratellanza ed intendeva delazione, parlava soprattutto di internazionalismo ed intendeva sopraffazione ed invasione. Ma il fatto più stravolgente fu la democratizzazione della lingua, con un progetto di alcuni linguisti legati al partito (PCC) i quali volevano cambiare le regole del cosiddetto ceco-standard. Per esempio la parola “university” di origine latina doveva mutare in “univerzity”, come se si volesse dimenticare l’eredità di antiche culture. Alla morte di Stalin, il 5 marzo 1953, seguì quella di Gottwald il 14 marzo, al quale successe Antonín Novotný. Però le purghe e l’atmosfera dello stalinismo si protrassero oltre la morte del capo supremo dell’URSS e Novotný sarebbe passato alla storia come il più staliniano dei capi comunisti. Il suo incontrastato potere durò 13 anni sulla Cecoslovacchia e pesò come una cappa di piombo. Egli disponeva del potere decisivo, nel sistema staliniano la sua era una posizione chiave. Poteva nominare, promuovere, rimuovere. Solo nell’ottobre del 1961 con il ventiduesimo congresso del PCUS, nel quale Chruščëv sviluppò e approfondì la critica e la condanna allo stalinismo; Novotný si trovò costretto a fare qualche concessione. Ma in ogni caso rimaneva sempre il padrone incontrastato del Paese, fermo sulle certezze staliniane dei primi anni. Il suo regime era caratterizzato da severissimi controlli e dalla pressione ideologico poliziesca sulla popolazione, ricorrendo spessissimo alla censura, legalizzata nel 1966. Tuttavia alla fine del 1967 l’opposizione nei confronti del leader era crescente, cosa che constatò anche l’allora primo segretario dell’URSS Brèžnev in visita a Praga. Così con il venir meno dell’appoggio di Mosca Novotný poté essere sollevato dalla carica di primo segretario, ma rimase presidente della Repubblica (carica decisamente meno importante) fino al marzo del 1968. Il 5 gennaio di quell’anno gli successe Alexander Dubček, già segretario del partito comunista slovacco.
La primavera di Praga
L’avvento del nuovo segretario fu il simbolo di una stagione di grandi speranze (Primavera di Praga), di un’utopia che coinvolse il mondo intero; egli vide i limiti del socialismo e cercò la via per superarli. Il programma di Dubček prevedeva la concretizzazione della riforma economica, la riabilitazione delle vittime delle persecuzioni civili e la soluzione di problemi istituzionali fra i quali la federalizzazione dello Stato. Nel mese di marzo la censura fu revocata, la stampa tornò ad essere libera e soprattutto ad essere d’aiuto per aprire la strada alle riforme di base, politiche ed economiche. La politica di Dubček riscontrò largo consenso di massa, come dirà egli stesso: “Il socialismo non aveva mai avuto un consenso così forte tra la maggioranza della popolazione”. Purtroppo ciò che Dubček non poteva immaginare che di lì a pochi mesi il suo processo riformistico sarebbe stato arrestato dall’invasione sovietica. I primi sintomi dell’ingerenza dei paesi del Patto di Varsavia verso il leader slovacco cominciarono a farsi sentire in occasione del ventesimo anniversario della presa di potere comunista in Cecoslovacchia. In quella occasione Walter Ulbricht, il capo tedesco orientale, criticò apertamente i piani di riforma economica, ma le riforme erano indispensabili per smascherare il “socialismo reale”, dietro il quale si celava una sorta di socialismo dispotico, militare che rappresentava un originale fusione di elementi di un capitalismo statale, organizzato monopolisticamente e centralmente nell’ambito della produzione, e un socialismo di tipo paternalistico nell'ambito della distribuzione e del consumo. In seguito Brèžnev ed i suoi alleati organizzarono il 23 marzo a Dresda, una conferenza che vedeva Dubček accusato dai vari leader comunisti di aver perso il controllo della situazione e permetteva una pluralità di opinioni che minacciavano il campo socialista. Ma lo statista slovacco per nulla persuaso, proseguì per la sua strada e alla fine di marzo non solo varò il suo “Programma d’azione” ma realizzò anche un quadro legislativo per la riabilitazione di tutte le vittime processate ingiustamente. Per capire meglio il programma citiamo una sua nota: “Non possiamo più costringere la vita in formule prestabilite, anche se queste formule sono state dettate dalle migliori intenzioni”. Il documento sanciva la fine dei metodi dittatoriali, introduceva la libertà di riunione e di associazione, eliminando così qualsiasi limitazione illegale della libertà. Nel campo dell’economia, il documento prevedeva un decentramento coerente e l’autonomia imprenditoriale per le direzioni aziendali, la legalizzazione delle piccole imprese private soprattutto nel settore dei servizi. Ciò che non veniva menzionato nel “Programma d’azione” era l’intenzione di un ritorno a una democrazia pluripartitica: agli occhi dei sovietici avrebbe significato la liquidazione del socialismo. Ma il gruppo dirigente che faceva capo a Dubček riteneva che con un lavoro onesto e veritiero, anche in un sistema di competizione elettorale il partito socialista avrebbe ottenuto il sostegno di una parte più che significativa della popolazione. Successivamente si tenne un ennesimo incontro tra sovietici e cecoslovacchi il 4 maggio a Mosca: i temi erano sempre gli stessi, con i soliti disaccordi, ma non c’erano i presupposti perché ci fosse un pericolo di imminente intervento armato. La preoccupazione di Brèžnev cresceva in vista del quattordicesimo congresso del PCC (da tenersi il 9 settembre), che avrebbe legittimato il nuovo corso; il culmine si raggiunse il 19 luglio con una lettera dei cinque paesi del Patto di Varsavia, nella quale si invitava l’opposizione interna al PCC a denunciare la politica deviazionista della direzione del partito. Tutto fu inutile, l’azione armata diventava necessaria così la notte tra il 20 e il 21 agosto le truppe sovietiche con rappresentanze di contingenti simbolici di Bulgaria, Rdt, Polonia e Ungheria invasero la Cecoslovacchia. Dubček e il suo stato maggiore furono arrestati e condotti a Mosca, costretti a firmare un accordo che legittimava l’invasione a posteriori. Intanto il 22 agosto si era riunito clandestinamente il quattordicesimo congresso del PCC in un sobborgo operaio alla periferia di Praga, al quale parteciparono 1.290 delegati, vale a dire più dei due terzi degli eletti; il comunicato conclusivo della prima sessione del Congresso dichiarava il non riconoscimento dell’occupazione e il ritiro delle truppe straniere, pronunciandosi apertamente per il Programma d’azione del partito; ma con il Paese occupato e i nuovi collaborazionisti pronti a entrare in scena ogni speranza di resistenza fu vana. In Occidente si levarono le prime voci di condanna contro l’aggressione; tutti i governi democratici protestarono. Il giudizio della sinistra italiana fu sostanzialmente convergente nel giudicare ingiustificata l’aggressione.
Il PCI di fronte all’invasione
Il Partito comunista italiano, che aveva dato l’appoggio al nuovo corso cecoslovacco, condannò l’intervento, definendolo un tragico errore dei dirigenti sovietici. Ma alla critica, anche se dura e pubblica, veniva sempre accompagnata la riconferma del rapporto fraterno e schietto che legava i comunisti italiani al PCUS. Il PCI non riuscì ad uscire dal recinto del campo socialista, rimase prigioniero della sua logica di schieramento e dei suoi tabù politici, e per questo non diede allo strappo un senso compiuto. Non avvertì invece, che l’intervento militare contro la Primavera di Praga segnava l’inizio dell’ultima grande involuzione, quella che avrebbe portato al crollo del sogno consumatosi tra l’89 e il 91. Inoltre con il suo dissenso non rappresentò neppure una forma di pressione verso il Cremlino, non pesò in alcun modo sullo svolgimento della crisi che si avviò subito verso “la normalizzazione”, affidata allo slovacco Gustáv Husák. Insomma, non ebbe alcun peso politico.
L’ultimo atto
Husák, nell’aprile del ’69, diventò primo segretario e guidò la Cecoslovacchia per diciotto anni; durante i quali si ritornò agli anni più bui dello stalinismo, le persecuzioni ripresero, specialmente nei confronti delle personalità della Primavera, Dubček sempre seguito da agenti, non poteva avere rapporti normali con altre persone; l’opposizione era praticamente inesistente. Solo nel 1977 con il movimento Charta ’77, fondato da Václav Havel, voci di dissenso cominciarono a levarsi, mentre l’anno seguente nasceva il Vons, un movimento per la difesa dei cittadini processati ingiustamente. Tuttavia simili iniziative erano fenomeni isolati, a causa di un’attentissima sorveglianza e di una costante pressione poliziesca. Solo l’arrivo di Michail Gorbačëv alla guida del PCUS scosse i dirigenti cecoslovacchi, poiché la sua politica di riforme rispecchiava molto da vicino quella voluta da Dubcek e con l’evoluzione di Mosca anche Husák e i suoi fedeli dovettero acconsentire alle riforme e varare la prestavba, una sorta di perestrojka cecoslovacca. In mezzo a questo clima politico nel 1987 Husák si fece da parte e la carica di primo segretario passò ad un suo collaboratore, Miloš Jakeš. Due anni dopo, preceduta dalla caduta del muro di Berlino (9 novembre 1989), il 17 novembre, fu innescata la crisi da una grandiosa manifestazione studentesca svoltasi in Piazza Venceslao a Praga.
Ormai il regime consumava i suoi ultimi giorni: l’11 dicembre si formò un governo di coalizione, Havel costituì un forum civico e il 29 diventava presidente della Repubblica, con Dubček presidente dell’Assemblea nazionale. Il vecchio leader della Primavera si dedicò con tutte le sue forze al lavoro diretto per ristabilire il quadro legislativo necessario per il ritorno alla democrazia; nel 1990 in visita a Mosca ebbe un colloquio con Gorbačëv, che in un certo senso gli conferiva un valore simbolico di risarcimento e riconoscenza. L’eroe del nuovo corso, diventato nel frattempo presidente del Partito socialdemocratico, si spense il 7 settembre 1992 in seguito ad un incidente stradale; la morte, avvenuta quasi due mesi prima della proclamazione della Repubblica Ceca e della Repubblica di Slovacchia, gli risparmiò l’ultima grande amarezza.
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