In questo libro dell’Antico Testamento tanto contestato, al punto che ne era vietata la lettura durante la liturgia matrimoniale, l’esperienza dell’amore si fa teo-logia. L’eros dà un certo pregustamento del vertice dell’esistenza, di quella beatitudine a cui tutto il nostro essere tende. Le pagine del testo, dall’inizio alla fine, hanno per oggetto il corpo in relazione, che diventa luogo di accesso al mistero di Dio.
Posto al centro dei libri biblici, il Cantico dei Cantici, o semplicemente Cantico, (in ebraico:שיר השירים [Shìr Hasshirìm]; in greco: ᾎσμα ᾈσμάτων [Asma asmaton]; in latino: Canticum Canticorum), è un inno all’amore tra uomo e donna: l’Amore personificato che rivela il piano divino della Creazione. Redatto nel IV secolo a. C., assieme a Qoelet o Ecclesiaste, Proverbi, e Sapienza di Salomone è attribuito a quest’ultimo: il re che chiese al Signore “un cuore che sappia ascoltare perché sappia rendere giustizia al tuo popolo e sappia distinguere il bene dal male” (1Re 3,9).
A differenza dei cosiddetti libri sapienziali, che rispecchiano la perfezione intellettuale del sovrano, il Cantico manca del lessico comune a Qoelet e Proverbi. La sua didattica è semplicemente quella dell’amore. Il cercare e il trovare del Qoelet qui sono gli amanti. Probabilmente, l’attribuzione a Salomone non dipende dalla sapienza ma dall’altra caratteristica del re: la bellezza. Il figlio di Davide, infatti, era considerato l’amante ideale, per questo il diletto del Cantico poteva essere paragonato al re. Nel corso dei secoli, la comunità dei credenti ha dibattuto a lungo se inserirlo nel canone, discussione chiusa intorno al 95 d.C da Rabbi Aqiba con queste parole: «Nessuno in Israele ha mai contestato che il Cantico dei Cantici sporchi le mani [cioè che esso sia sacro], perché il mondo intero non vale il giorno in cui il Cantico dei Cantici è stato donato a Israele, perché tutti gli scritti sono santi, ma il Cantico dei Cantici è il santo dei santi [qodèsh haqqodashìm].
Se c’è stata una discussione questa ha riguardato soltanto Qoelet». L’inserimento del libro nel canone è dovuto alla sua interpretazione, che nel mondo giudaico è la relazione Adonai/Israele, la metafora dell’amore attribuita al Signore funziona bene anche nel Cantico. La tradizione cristiana riprende l’interpretazione allegorica in senso ecclesiologico: Cristo-sposo/Chiesa-sposa, ma è innegabile che il significato letterale del testo preceda l’allegoria. È sempre dalla lettera che si ottiene il senso spirituale! Questa raccolta di canti d’amore, infatti, veniva declamata nelle osterie, suscitando l’ira dei rabbini; il motivo, quasi sicuramente, è da ricondurre alla paura della fisicità, del corpo, considerato come qualcosa di sporco, inferiore alla dimensione spirituale. Una tesi che col dualismo platonico è arrivata fino ai nostri giorni, ma che non tiene conto del fatto che Dio si è manifestato attraverso la carne di Cristo e il corpo è quindi il luogo della rivelazione di Dio.
Così come le mani del vasaio rimangono sul manufatto, le mani del Creatore rimangono sulla creatura. Le tracce di Dio sono indelebili sul nostro corpo e l’amore nel Cantico è allo stesso tempo divino e umano. Gli otto capitoli del libro somigliano più a un canovaccio teatrale che a un racconto: non c’è una trama; troviamo dialoghi, monologhi degli amanti, personaggi (come le guardie, i fratelli di lei, le ragazze di Gerusalemme, il coro), in un’ambientazione prevalentemente agreste, con qualche scampolo cittadino. La campagna, con i suoi profumi e la sua natura, è il luogo dell’amore; la città, al contrario, rappresenta l’ambiente negativo, fatto di convenzioni sociali ostili all’amore.
Le pagine traboccano d’amore: un amore libero, vissuto in pienezza, esclusivo, eterno, capace di tenere testa alla morte e vincerla. Lo studioso Gianni Barbiero propone, tra la cornice del prologo (1,2-2,7) e dell’epilogo (8,5-14), una divisione in due parti simmetriche: 2,8-5,1 e 5,2-8,4. In ciascuna di esse è ravvisabile un movimento degli amanti: alla separazione (2,8-17; 5,2-5) segue una ricerca (compiuta ambedue le volte dalla donna 3,1-5; 5,6-6,3). Dopo la ricerca, l’amata e il diletto si trovano l’uno di fronte all’altra: è questo il momento della contemplazione reciproca, che trova espressione in appassionate descrizioni dei corpi dei due amanti (4,1-6; 6,4-7,11). Il culmine dell’incontro è costituito dall’unione con la quale si conclude ciascuna delle due parti del testo (4,8-5,1; 7,12-8,4): “Nel momento d’amore – afferma Barbiero – si assapora la bontà di Dio”.
L’amore nel Cantico non passa attraverso una speculazione astratta ma dall’esperienza fisica in cui uomo e donna sono pari. L’amata sfida le regole della società patriarcale, non si cura dei fratelli, che vorrebbero esercitare la loro autorità su di lei (1,6) o difenderla dai pericoli (8,8). La Sulamita è forte, indipendente, emancipata: si difende da sé. È lei che prende l’iniziativa. Il dono della sua vita al diletto è libero e consapevole, voluto e desiderato. Allo stesso tempo, non ha paura di essere giudicata ed esce sola in piena notte, con il rischio di essere considerata una “poco di buono”, alla ricerca dell’amato e compie un vero e proprio esodo, così come l’amore prescrive: uscire da se stessi.
Le guardie alle porte di Gerusalemme la malmenano, la feriscono, le strappano lo scialle (5,7). La dinamica dell’amore prevede il rischio, ha bisogno della tenacia, supera le difficoltà. Non è stato da meno il diletto quando si è recato da lei, attraversando monti e colli (non è una strada piana quella che conduce all’amata!) per giungere al suo cospetto. Si ferma solo davanti al muro (2,8-17), che la Sulamita chiama “nostro”. Potrebbe sì scavalcarlo, ma si limita a chiamarla, l'attende pazientemente, non va oltre il confine, rispetta il mistero di lei, l’alterità. L’amore impetuoso che sa essere capace di arrestarsi davanti alla libertà dell’altro... Lo stesso concetto lo ritroviamo in 4,1: il muro si assottiglia e diventa velo che, seppur decisamente meno ingombrante, ribadisce il mistero di lei. Nemmeno l’unione più intima può svelarlo: l’inviolabilità dell’altro rimane anche nell’intimità.
L’Amore vero non è mai invadente. Troviamo in questi versetti (4,1-16) uno sguardo di contemplazione che non si impossessa dell’amata, ma viene ricambiato con occhi pieni di messaggi d’amore. C’è reciprocità. Il grande insegnamento del Cantico è proprio questo: nell’amore si è pari, nessuno degli amanti prevale, nessuno dei due si impossessa dell’altro; si compiono, così, le parole di Genesi (2,18): “La donna alleata che sia alla sua altezza”.