Oggi pomeriggio nel Cenacolo del Ghirlandaio in Borgo Gnissanti, 42 all'interno del Convegno sugli abusi post-conciliari verrà presentato il libro di Roberto de Mattei, "Il Concilio Vaticano II. Una storia mai scritta", Lindau, Torino 2010, p. 630, € 38
È difficile, se non impossibile, affrontare il tema del Concilio Vaticano II limitandosi alla narrazione delle vicende dell’assise vescovile, durata dall’11 ottobre 1962 all’8 dicembre 1965: è necessario considerare l’evento nel suo completo quadro storico, tenendo conto del periodo che lo precedette (la lotta contro il modernismo), di quello in cui si svolse (la guerra fredda) e di quello in cui espresse le proprie conseguenze (la contestazione del Sessantotto). Infatti, pur essendo stato preceduto da ben venti Concili e pur, a differenza dei precedenti, essendosi posto come non dogmatico (e non avendo avocato su di sé l’ausilio dello Spirito Santo), il Vaticano II è quello che forse più ha inciso sulla storia della Chiesa e viene tuttora percepito come il più importante dei Concili, quasi avesse abrogato e sostituito tutti gli altri. Due le principali interpretazioni ermeneutiche: quella della continuità (sostenuta da Benedetto XVI) e quella della discontinuità (che ha il suo punto di riferimento nella cosiddetta “Scuola di Bologna” nel campo “progressista” e in Romano Amerio in quello “tradizionalista”). Secondo la prima i documenti del Vaticano II devono essere interpretati alla luce della Tradizione, mentre la seconda sostiene che il Concilio abbia espresso un’innegabile rottura con il passato. Se la Scuola di Bologna ha partorito una monumentale Storia del Concilio Vaticano II, alle esegesi tradizionaliste mancava finora una valida analisi puramente storica del Concilio. Tale vuoto è stato ora colmato dall’ampio e denso (oltre 2400 note) saggio di Roberto de Mattei, Vicepresidente del CNR e docente di Storia della Chiesa presso l’Università Europea di Roma, che affronta il Concilio non da un punto di vista teologico, ma storico. Una storia “mai scritta”, quindi, non tanto e non solo per le nuove testimonianze, quanto per l’inedita interpretazione e metodologia d’indagine e perché intende ordinare, comprendere e narrare le vicende del Concilio «in una filosofia della storia che, per lo storico cattolico, è innanzitutto una teologia della storia» (p. 23). Peculiarità del Concilio fu quella di essere percepito fin dal proprio inizio come fortemente innovativo: i contemporanei parlarono di «svolta storica», di fine della Controriforma, del Medioevo o dell’era costantiniana ed il suo documento finale, la costituzione Gaudium et spes, venne considerata come una revisione del Sillabo e della Pascendi, un testo che impegnava la Chiesa ad aprirsi al mondo ed a cogliere lo spirito dei tempi, ma che ometteva, nel contempo, qualsiasi condanna del comunismo, che pure era stato evidenziato come “il problema dei problemi” nel corso dei lavori preparatori. In tal modo fece ritenere ai fedeli che fosse stato abrogato quanto gli ultimi Sommi Pontefici detto e scritto contro il marxismo. Al contrario, mentre si chiudevano gli occhi sugli orrori del comunismo (e si avallava la Teologia della Liberazione), iniziò una serie di ammissioni di colpe e di richieste di perdono: Paolo VI inaugurò tale prassi in maniera ambigua, cioè senza distinguere chiaramente tra Chiesa (infallibile) e uomini di Chiesa (ovviamente fallibili), instillando di conseguenza nei fedeli il dubbio che anche la Sposa di Cristo potesse sbagliare. Eppure i documenti conciliari non sono eccessivamente “rivoluzionari”: ma lo è la loro percezione e la loro applicazione. Pensiamo alla più importante riforma post-conciliare, quella liturgica: con l’introduzione del Novus Ordo, infatti, si dette la stura ad una serie di innovazioni ed aggiunte che non erano previste dal canone, ma che divennero ben presto una prassi consolidata. Ecco le canzoni folk a sostituire la polifonia, le chitarre al posto dell’organo, la “passeggiata” tra i banchi del celebrante che, per stringere le mani ai fedeli durante lo scambio del “segno della pace” non si faceva scrupolo di abbandonare l’altare, peraltro abbassato ad una semplice tavola eucaristica, all’uso dei protestanti… Inoltre la messa moderna avrebbe dovuto solo affiancare quella tradizionale: di fatto la abrogò. Ecco perché, resosi conto di tanti errori, lo stesso Paolo VI parlò di “fumo di Satana” ed un commentatore “insospettabile” come Jacques Maritain sostenne che, a confronto con il neo-modernismo post-conciliare, il modernismo dei tempi di S. Pio X non era altro che «un modesto raffreddore da fieno». Una delle principali colpe del Vaticano II viene individuata da de Mattei nella corsa all’apertura verso il mondo, nell’aver inseguito una mentalità moderna (con un primato pastorale parallelo al “primato della prassi” di derivazione marxista, con la pretesa di giudicare i dogmi in base alla loro capacità di modificare la società o di adattarsi ad essa), rifiutando l’insegnamento tradizionale. Per questo l’Autore chiosa amaramente: «I Padri conciliari avrebbero dovuto compiere un gesto profetico sfidando la modernità piuttosto che abbracciarne il corpo in decomposizione, come purtroppo avvenne».
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